EDITORIALE


La lunga marcia
dell'Europa

Foto Andreotti


     L'europeismo, se ha rappresentato e tuttora costituisce nella storia italiana contemporanea un motivo centrale di orientamento, è stato anche la linea discriminante di una politica non effimera dell'Italia democratica.
     Parlamentarmente la prima opposizione alla partecipazione italiana a iniziative europee l'avemmo in sede di ratifica del Consiglio d'Europa nel 1949.
     Lo statuto approvato tra i dieci Paesi lasciava a ogni governo di fissare le procedure per la nomina dei rappresentanti degli Stati nell'Assemblea consultiva. E il nostro governo propose, per i diciotto italiani da inviare, di farne eleggere sette e sette dalle due Camere a maggioranza assoluta, lasciando gli altri quattro al Consiglio dei ministri.

L'europeismo, se ha rappresentato e tuttora costituisce nella storia italiana contemporanea un motivo centrale di orientamento, è stato anche la linea discriminante di una politica non effimera dell'Italia democratica

     Il dibattito fu serrato, iniziato con un duro discorso di Togliatti che rivendicava una quota per le opposizioni. L'obiezione del governo era che non si poteva andare a far parte degli organi di una istituzione, contro la nascita della quale si votava in Parlamento. Di qui la clausola della maggioranza assoluta, che fu approvata con la sola variante che tutti i diciotto inviati venivano votati dalle Camere.
     Qualche rilievo fu in verità poco consistente, come la tesi del relatore del Senato, Gerini, che, escludendo correttamente che si trattasse di una rappresentanza del Parlamento sostenne però che i diciotto eletti: "Agivano in nome proprio e con responsabilità proprie". "Si tratta" disse "di cittadini idealmente avulsi da ciascuna particolare entità statale, chiamati a svolgere una attività consultiva per fini deliberati dagli organi competenti dei vari Stati e responsabili di fronte alla propria coscienza e all'opinione pubblica delle nazioni interessate".
     Di natura sostanziale le critiche di Lelio Basso che rimproverava a Sforza di aver presentato il Consiglio come la nascita di una vera e propria unità europea. Mentre Nitti distrusse in radice ogni possibilità di intesa con un bisticcio di parole tra Consiglio d'Europa e nostra presunzione di dar consigli all'Europa. Ma all'apice del suo scetticismo si disse tranquillo anche se la ratifica passava, perché "gli italiani hanno una grande fortuna; sanno non applicare la legge". E rincalzò la dose insistendo: "La caratteristica di noi italiani, il nostro errore, ma anche la nostra forza è che noi non applichiamo la legge, ma non la abroghiamo". Ho citato questo come sintomo della difficoltà che molti uomini con un illustre passato prefascista - non tutti certamente - avevano nel rendersi conto del superamento degli ambiti nazionali come elemento di costruzione di un avvenire di pace e di progresso.

Parigi, 18 aprile 1951. Nasce la Comunità europea del carbone e dell’acciaio. Firmano il trattato che la istituisce (da sinistra nella foto), per il Belgio Paul Van Zeeland, per il Lussemburgo Joseph Bech, per l’Italia Carlo Sforza, per la Francia Robert Schuman, per la Germania Federale Dirk Stikker e per l’Olanda Johannes Van Den Brink

     Purtroppo la guerra fredda impediva alle forze di sinistra l'atteggiamento che sarebbe stato anche culturalmente consono agli interessi da loro rappresentati.
     È del 1951 un passo avanti nella integrazione continentale, con la creazione della Comunità del carbone e dell'acciaio. Senza nulla togliere agli indubbi contenuti tecnico-produttivi nel delicato settore, era di grande e credo prevalente rilievo il cominciare a dar vita a una realtà politica comune tra i popoli europei dotandola di idonee istituzioni, tra cui una assemblea parlamentare rappresentativa.
     Nella incomunicabilità globale fu forse inevitabile l'ostilità al secondo passo avanti, cioè alla Comunità economica di difesa, avversata anche come ritenuta appendice del Patto atlantico, laddove nasceva - a parte il valore di salvaguardia democratica di una più che legittima ripresa della Germania - proprio dalla volontà di dare uno specifico contributo dell'occidente europeo alla comune difesa interatlantica. Firmato nel 1951, il Trattato Ced fu accantonato in Italia per una di quelle cicliche stagioni di crisi che, caduto il governo De Gasperi nel luglio 1953, impedì a Pella anche la semplice presentazione del disegno di legge di ratifica e non consentì, subito dopo, al ministero Scelba di sollecitare il dibattito.
     De Gasperi si fece di questo un cruccio che lo tormentò negli ultimi giorni di vita. A chi gli osservava che la Francia di Mendes France avrebbe respinto l'intesa stipulata da Robert Schuman, rispondeva che un tempestivo voto del Parlamento italiano avrebbe potuto offrire un estremo sostegno a quanti a Palazzo Borbone si battevano per la ratifica. L'Assemblea nazionale di Parigi silurò la Ced pochissimi giorni dopo la morte del nostro presidente. Almeno questa conferma ufficiale gli fu risparmiata.
     Un filo logico-politico molto forte collega la Ced ai Trattati del 1957, ma la letteratura relativa è ricca di dinieghi in proposito. E si spiega. Chi cominciò finalmente a convincersi, dopo anni di contrasto, della bontà dello sviluppo comunitario, aveva necessità di giustificare il proprio rifiuto precedente. Questo vale per i socialisti, che sui Trattati di Roma si astennero; e ancor più per i comunisti, che votarono contro, dopo interventi durissimi e previsioni catastrofiche. Occorre attendere la fine degli anni Sessanta per constatare l'inizio di un mutamento di rotta.

Purtroppo la guerra fredda impediva alle forze di sinistra l’atteggiamento che sarebbe stato anche culturalmente consono agli interessi da loro rappresentati

     Va forse detto che non aveva contribuito a sollecitare l'avvicinamento delle sinistre l'estensione all'Assemblea della Cee del metodo di elezione parlamentare dei rappresentanti italiani nel Consiglio d'Europa e nella Comunità del carbone e dell'acciaio. Risvolti giuridici a parte, molti di noi sentivano la debolezza politica che questa ostilità comportava. Analogo disagio vivemmo nei confronti dei nostri impegni internazionali nel campo della Nato. Che sicurezza offriva l'Italia, con una opposizione specifica così ampia, nel caso in cui l'Unione Sovietica avesse scatenato un conflitto? In quest'ottica va interpretato il lavoro di alcuni di noi (io ero in quel momento capogruppo dei democristiani alla Camera dei deputati) per allargare a tutto il Parlamento la proiezione in Europa. Per esattezza di cronaca, devo dire che a spingere al cambiamento servì anche - oltre l'esempio della Germania, dell'Olanda e del Belgio che adottavano il sistema proporzionale - il blocco del rinnovo della delegazione italiana, che si era creato dopo la perdita della maggioranza assoluta da parte della Democrazia cristiana e dei partiti alleati; con il risultato che continuavano ad andare nell'Assemblea europea anche ex deputati ed ex senatori italiani. Poterono così per la prima volta, il 21 gennaio 1969, divenire deputati europei anche Nilde Iotti e Giorgio Amendola.
     Problemi analoghi si erano vissuti sia in Francia che in Inghilterra. In Francia, agli inizi della Cee, i comunisti si erano rifiutati di andare in quella che Maurice Thorez aveva definito "una pretesa assemblea". Cambiarono avviso nel 1964, ma dovettero attendere il 1972-73 quando i socialisti minacciarono di boicottare Strasburgo se non si fossero inviati anche i comunisti. Furono allora eletti tre deputati e un senatore.

Un manifesto del ’57 per la firma dei Trattati di Roma

     Anche i laburisti inglesi avevano disertato Strasburgo in segno di non accettazione del Trattato firmato dal conservatore Edward Heath. Vi andarono nel luglio 1975 dopo la rinegoziazione stipulata dal governo di Harold Wilson, approvata con una forte maggioranza nel referendum popolare.
     Solo allora il Parlamento europeo ebbe una effettiva rappresentatività generale. A partire dal 1979 i parlamentari europei furono eletti a suffragio universale diretto.
     Né può dimenticarsi la lunga marcia per far arrivare tutta la sinistra alla accettazione della politica estera di respiro europeo ed atlantico. Senza precisi affidamenti in proposito, pur sotto la spinta di tragiche situazioni finanziarie e per la sicurezza interna, non si sarebbero avuti gli accordi del 1976 che passarono sotto il segno della "solidarietà nazionale". Il documento dell'anno successivo, firmato e votato nelle due Camere anche dai comunisti, consacrò ufficialmente che il Patto atlantico e la Comunità europea costituiscono punti di riferimento fondamentali della politica estera dell'Italia. I socialisti lo avevano anticipato in coincidenza con il lento abbandono dell'opposizione.
     Non si dimentichi però - nella interpretazione del 1977 - che nel frattempo era intervenuto l'accordo di Helsinki per la sicurezza e la cooperazione, sottoscritto da tutti i Paesi europei - salvo l'Albania - insieme agli Stati Uniti d'America e al Canada. Gli scettici obiettavano che era illusione credere a queste linee, quando l'Urss continuava a proclamare la sovranità limitata dei suoi alleati. Puntuale fu la risposta di Aldo Moro, che firmò a Helsinki anche come presidente di turno della Comunità: "Breznev passerà, ma l'impegno alla cooperazione resterà e darà i suoi frutti".
     A rendere più difficile il cammino di molti italiani verso l'Europa ha contribuito anche il prevalere che si è dato ai problemi interni - direi anzi di schieramento partitico interno - disattendendo la linea-guida degasperiana secondo cui è la politica interna che deve ragguagliarsi a quella estera e non viceversa.

Roma, 25 marzo 1957. Antonio Segni e Gaetano Martino firmano per l’Italia il Trattato che istituisce la Comunità economica europea

     Un momento tipico di questa errata tendenza lo avemmo proprio nel 1957 e non per colpa dell'opposizione. Poche settimane dopo la firma, sul Campidoglio, dei Trattati di Roma - presentati immediatamente al Parlamento per la ratifica - il governo quadripartito presieduto da Antonio Segni andò in crisi, sostituito dal monocolore di Adone Zoli. Così, per ragioni di schieramento tra i partiti della maggioranza, a illustrare e a difendere i testi alle Camere non fu il ministro Martino, che era stato il grande tessitore degli accordi stessi, strutturati proprio secondo il modello elaborato nel celebre incontro di Messina del luglio 1955. Resta peraltro agli atti della Camera un documentato discorso che l'onorevole Gaetano Martino pronunciò dal suo banco di deputato rivendicando legittimamente la parte da lui avuta nella storica realizzazione. Non occorrono testimonianze, ma essendo stato ministro delle Finanze in tutto quel periodo conosco non solo gli aggiornamenti che via via il ministro degli Esteri esponeva al Consiglio, ma la personalissima cura con la quale seguiva il lavoro del gruppo di preparazione in perfetta sintonia con il collega belga Paul Henry Spaak.
     L'intrinseca forza delle cose giuste e dei valori ideali avrebbe attenuato e fugato tutte le obiezioni iniziali agli Accordi di Roma. Si parla tuttora di europessimismo. Ma è un dato di fatto che i sei Paesi sono gradualmente divenuti quindici e molti altri anelano con decisione a venirne a far parte. Ma c'è di più. Attraverso due tappe significative - Atto Unico del Lussemburgo e Trattato di Maastricht, integrato dagli Accordi di Amsterdam - la Comunità è divenuta Unione e, nella sostanza, si sono fatti passi avanti notevoli nei campi in partenza poco partecipati. Pensiamo ai problemi sociali e alla sensibilizzazione sulle strutture regionali destinate in vario modo a evitare che l'Unione sia un cartello delle capitali centralizzate.

A rendere più difficile il cammino di molti italiani verso l’Europa ha contribuito anche il prevalere che si è dato ai problemi interni - direi anzi di schieramento partitico interno - disattendendo la linea guida degasperiana secondo cui è la politica interna che deve ragguagliarsi a quella estera e non viceversa

     Non è inutile sottolineare che sia l'Atto Unico del Lussemburgo che il Trattato di Maastricht sono conseguenza diretta di accordi maturati in due Consigli europei tenuti in Italia, il primo a Milano e l'altro a Roma.
     Nel dibattito sulla ratifica iniziale nel 1957 l'onorevole Riccardo Lombardi criticò in un certo senso paradossalmente il Trattato perché i tempi di piena attuazione gli sembravano troppo diluiti. Il relativo sviluppo può certamente vedersi secondo un'ottica contrapposta: da un lato vi è la conferma della bontà di una inversione di storiche posizioni conflittuali per costruire un edificio comune al quale l'Italia ha conferito parte della sua sovranità, secondo quanto fu sapientemente previsto nell'art. 11 della Costituzione della Repubblica. C'è viceversa chi si duole di perduranti spazi di individualismi statali che frenano il disegno di integrazione, anche se la prospettiva ormai vicina della moneta unica rimuoverà una parte notevole di queste pur nobili insofferenze. Una parte. Perché se è improprio parlare di "entrare nell'Europa" perché siamo e restiamo soci fondatori, è pur vero che non pochi obiettivi essenziali specie tra quelli di Maastricht debbono ancora essere raggiunti e che sotto un profilo istituzionale le ultime decisioni di Amsterdam hanno suscitato delusioni. Mi riferisco in particolare all'obiettivo di "affermare l'identità dell'Unione europea sulla scena internazionale, segnatamente mediante l'attuazione di una politica estera e di sicurezza comune". Purtroppo le vicende dei Balcani e certe polemiche sul Consiglio di sicurezza dell'Onu contrastano con questo chiaro proposito, ulteriormente specificato nella "coerenza globale nell'ambito delle politiche in materia di relazioni esterne, di sicurezza, di economia e di sviluppo".
     Su un punto si concentrano oggi le speranze in particolare dei giovani: la ristrutturazione e la diversificazione degli apparati economici in modo da conciliare progresso tecnico e risposte alla domanda affannosa di occupazione. L'Unione europea ha riconosciuto - dopo passate esitazioni di alcuni Paesi - che è problema comunitario e che sarebbe altrimenti espressione vana e retorica quella della cittadinanza europea.
     Tuttavia l'Europa non può non riconoscere - tutta insieme - di essere in una condizione privilegiata in quanto a disponibilità di risorse rispetto a una parte molto grande della famiglia umana.

Voglio ricordare un aspetto caratteristico e innovativo dell'azione comunitaria al quale non sempre si porta la dovuta attenzione. Mi riferisco alla grande rete di collegamento economico e politico con i Paesi del cosiddetto Terzo Mondo

     E, qui concludendo, voglio ricordare un aspetto caratteristico e innovativo dell'azione comunitaria al quale non sempre si porta la dovuta attenzione. Mi riferisco alla grande rete di collegamento economico e politico con i Paesi del cosiddetto Terzo Mondo, instaurata dalla Cee, prima con i rapporti di libero scambio con i diciotto Stati extraeuropei che avevano con i Paesi del Trattato di Roma rapporti speciali e che stavano conquistando l'indipendenza, e subito dopo con le Convenzioni dette Acp (Africa, Caraibi, Pacifico) con le quali iniziò l'intreccio di sostegno allo sviluppo che dopo l'entrata dell'Inghilterra venne esteso a tutte le aree analoghe del Commonwealth ed anche in altre direzioni, con un riordino generale che si concretò il 28 febbraio 1975 con la Convenzione di Lomè.
     Forse, anzi senza dubbio, il dato quantitativo dell'aiuto non è eccezionale. Ma il significato è inequivoco. All'interno dell'Unione dobbiamo realizzare una maggiore giustizia perequativa, ma nello stesso tempo non sfuggiamo all'imperativo di una solidarietà più ampia, senza confini continentali, che comporta anche sacrifici. Talvolta è necessario - come individui e collettivamente - riguardare non solo a chi sta meglio per cercare di raggiungerlo o almeno di diminuire il dislivello, ma a quanti - famiglie ed intere popolazioni - si dibattono in una condizione letteralmente disumana.
     In questa consapevolezza e nei conseguenti comportamenti si caratterizza, io credo, la civiltà europea.