COPERTINA

Palestina


La terra dove
nacque Gesù

Storia recente della Palestina, il paese dove Dio si è reso visibile. Dalla nascita dello Stato di Israele nel 1948 allo storico incontro fra Rabin e Arafat nel giardino della Casa Bianca. Alle parole del Papa al primo ambasciatore di Israele: "Il dialogo tra i popoli del Mediterraneo non è più un'utopia.
È una lunga strada che va percorsa con l'audacia della pace"

di Giulio Andreotti


     Nel recente convegno sul Volto di Cristo, promosso con grande intelligenza e successo dal cardinale Fiorenzo Angelini, ho ritenuto utile - accanto a dotte relazioni teologiche, mistiche, artistiche e storiche - richiamare l'attenzione sullo stato attuale della terra che ospitò duemila anni fa il Dio visibile, nel grande disegno della redenzione.
     Non è purtroppo raro che leggendo o ascoltando le cronache di quel che accade nel Medio Oriente e specificamente in quella che si chiama Terra Santa il pensiero vada spontaneo a Gesù che pianse, proprio mentre la folla lo acclamava osannante.
     Si legge in San Luca 19, 41-44: "Quando fu vicino alla città la guardò e pianse su di lei dicendo: "O se conoscessi anche tu e proprio in questo giorno quel che giova alla tua pace. Invece ora sono cose rimaste nascoste ai tuoi occhi. Poiché verranno per te giorni nei quali i tuoi nemici ti faranno attorno delle trincee, ti circonderanno e ti stringeranno d'assedio da ogni parte e distruggeranno te e i tuoi figlioli che sono in te e non lasceranno in te pietra su pietra perché non hai riconosciuto il momento in cui sei stata visitata"".

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La Basilica del Santo Sepolcro a Gerusalemme

     Cinquanta anni or sono, terminata da poco la seconda guerra mondiale con il fragore tragico delle bombe atomiche, l'umanità era ancora attonita dinanzi al consuntivo tremendo di stragi e di distruzioni, che richiamava - forse come mai nella storia - l'agghiacciante passo dell'Apocalisse: "E uscì fuori un altro cavallo rosso e a colui che vi stava sopra fu dato di togliere via la pace dalla terra; sicché gli uomini si sgozzassero gli uni con gli altri; e gli fu data una grande spada".
     Nell'ansia di ricostruzione e di riparazione, doverosa e spontanea era l'assunzione prioritaria del problema degli ebrei, vittime dell'incredibile olocausto che aveva falcidiato sei milioni di uomini, di donne e di bambini.
     Così l'Organizzazione delle Nazioni Unite - che era subentrata a quella Società delle Nazioni, che la mancata ratifica del Senato americano aveva condannato sul nascere alla sterilità - dette vita nel 1948 allo Stato d'Israele, con la contemporanea creazione di uno Stato arabo, che rimase peraltro, a differenza del primo, inattuato.
     Non è questa la sede per approfondire il motivo o i motivi del rifiuto, a parte le obiettive difficoltà. Sta di fatto che il mondo arabo trovò nella contestazione globale allo Stato d'Israele un forte cemento coesivo, che assunse una intensità più profonda quando venne meno l'altro coagulo, rappresentato dal sostegno all'indipendenza dell'Algeria. Il ricorso alle armi non solo non ottenne il risultato, ma provocò l'occupazione da parte israeliana di territori arabi, che invano l'Onu intimò più volte di restituire.
     Sfiducia reciproca e totale incomunicabilità hanno impedito a lungo qualsiasi barlume di schiarita. E lo stesso coraggioso gesto di Sadat e di Begin - stimolati dal presidente Carter a Camp David - ruppe attraverso l'Egitto l'isolamento israeliano, ma suscitò un fronte del rigetto che inasprì ancora di più le situazioni.
     Il problema sembrava insolubile, anche a causa degli insediamenti di coloni ebrei nei territori occupati - motivati talora dai programmi di sistemazione di nuovi immigrati - che sono continuati ad affluire da tanti Paesi (massicciamente dalla Russia, dopo la rimozione del divieto). La popolazione globale dello Stato, che negli anni Sessanta era di poco più di due milioni di abitanti, oggi ha superato i cinque milioni e mezzo. Secondo le statistiche ufficiali dell'appartenenza religiosa, l'81 per cento sono ebrei; il 14, 5 musulmani; il 2, 8 cristiani e l'1, 7 drusi o di altre confessioni.
     Importanti sono anche i dati di provenienza: il 58 per cento dall'Europa, il 18 per cento dall'Africa, il 15 per cento dall'Asia e l'8 per cento da America e Oceania (dell'1 per cento non è noto il punto di emigrazione).
     Non fu facile far superare l'opposizione radicale a qualsiasi tentativo di dialogo tra le parti. Da un lato l'Organizzazione per la liberazione della Palestina veniva considerata null'altro che una aggregazione terroristica; per suo conto l'Organizzazione stessa negava nel proprio Statuto allo Stato d'Israele non solo il diritto alla sicurezza ma alla semplice esistenza.
     L'Italia, anche in sede di Comunità europea con la dichiarazione di Venezia proposta nel 1980 dal ministro Colombo insieme al ministro tedesco Genscher, reagì alla acquiescenza a questa divaricazione che il tempo da solo non avrebbe mai potuto correggere e che anzi ogni giorno si andava paurosamente aggravando. Nel settembre 1982 sondata la disponibilità di Arafat ad un tentativo di disgelo lo invitammo a Roma perché lo dicesse pubblicamente dinanzi ai delegati di cento nazioni, qui convenuti per la Conferenza dell'Unione interparlamentare.
     Non ci scoraggiammo perché il messaggio non fu subito raccolto e provocò anzi commenti duri e critiche feroci. Il Consiglio nazionale palestinese, sia pur faticosamente, continuò la ricerca di una via negoziale formalizzando anche tale progresso in un Consiglio nazionale tenutosi ad Algeri. Arafat chiese ed ottenne di poter illustrare all'Onu questa evoluzione, ma perché potesse farlo dovette spostarsi l'Assemblea da New York a Ginevra, dato che gli Stati Uniti (e non erano i soli) rifiutavano all'esponente palestinese il visto d'ingresso, mentre gli israeliani, pur non negando del tutto la buona fede di chi, come me, lo perseguiva, reputavano il possibilismo illusorio e pericoloso.
     È storicamente esatto che l'inizio di uno sblocco avvenne per una ineludibile solidarietà che venne ad aversi tra Israele e mondo arabo, nella reazione prima diplomatica e poi militare all'invasione del Kuwait da parte dell'Iraq. L'Olp in verità non si allineò sul fronte giusto, chiedendo che l'Onu risolvesse prioritariamente il suo problema. Il presidente Bush prese egualmente l'impegno solenne ad affrontare la questione palestinese subito dopo la restituzione della sovranità del Kuwait invaso.
     E così puntualmente avvenne, mediante riservatissimi buoni uffici del governo norvegese culminati nello storico incontro di Rabin e di Arafat nel giardino della Casa Bianca.
     Incontro storico, ripeto. Reso possibile anche psicologicamente dopo le vicende della dura repressione dell'Intifada che avevano aperto gli occhi e commosso anche molti che fino a quel momento erano rimasti fermi nel rifiuto di ogni trattativa. Certe immagini televisive avevano prodotto specie in America una autentica inversione di tendenza. Ma si cadde forse in una nuova e diversa illusione. Come in precedenza si era da molti ritenuto erroneamente di poter rimanere indefinitamente sul negativo, così si pensò - o si lasciò credere - che tutto fosse ormai risolto e che il calendario operativo del processo di pace fosse una mera formalità. Purtroppo non era e non è così. Lungo la strada sono emersi di continuo ostacoli, prevedibili o nuovi, con l'aggravante di ricorrenti gesti di cieca violenza di chi non si rassegna alla convivenza. Dall'eccidio di Hebron all'assassinio di Rabin e oltre è una via dolorosa che non deve tuttavia far perdere fiducia nella vittoria finale della ragione.
     Tra i fattori che hanno contribuito alla rimozione delle barriere pregiudiziali che impedivano il dialogo deve collocarsi la politica della Santa Sede, anzi possiamo ben dire, riferendoci al Concilio e alla soppressione di certi passi nei testi liturgici, l'atteggiamento della Chiesa cattolica.
     Dopo stagioni di mal celato rammarico per le udienze accordate ad Arafat e per la comprensione per le sofferenze dei palestinesi si è giunti, tre anni or sono, all'instaurazione di rapporti diplomatici tra la stessa Santa Sede e lo Stato di Israele. Nell'accogliere il primo ambasciatore, Shmuel Hadas, il Papa ha potuto dire: "Il dialogo tra i popoli del Mediterraneo non è più un'utopia. È una lunga strada che va percorsa con l'audacia della pace". E se dal Vaticano si rinnovano chiari auspici per uno statuto speciale per la città di Gerusalemme, garantito internazionalmente e che preveda libertà di coscienza e di religione per tutti i suoi abitanti e libero accesso ai luoghi santi per i fedeli di ogni religione e nazionalità, questo non rappresenta più - salvo che per frange estremiste - un motivo di stizzita polemica. Che poi il problema di Gerusalemme sia un punto isolabile dal contesto generale o sia coronamento finale al processo di pacificazione resta nell'ambito delle opinabilità. Anche perché - lo ha ricordato qui in Roma quel sindaco - l'isolamento pratico della città di Betlemme, ad esempio, non è meno inquietante. Nell'udienza accordatagli a Castel Gandolfo - insieme a rappresentanti dell'Autorità palestinese, il 22 settembre - il Papa ha detto: "È Dio stesso che chiede a ciascuno di avere il coraggio della fraternità, del dialogo, della perseveranza e della pace!".
     Per il resto la simultaneità degli accordi finali per l'intera area sembra una linea saggia e prudente, la cui mancanza è stata forse motivo di inceppamento del disegno generale. Fu la richiesta posta dal presidente della Siria Assad, disattesa con gli accordi separati di Israele con la Giordania e con l'Olp. Ritengo che sbagli - e comunque non costruisca - chi pensa di trovare una intesa per il Golan stralciandola dal quadro globale.
     Con grande delicatezza ma senza equivoci mi sembra che lo abbia fatto intendere il Papa nei discorsi della significativa visita nel tormentato Libano.

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     Sappiamo bene quanto sia arduo dipanare l'intreccio di contrasti e differenze che sottendono a tutta questa problematica, per la quale preziosi sono anche gli sforzi paralleli che si cerca di realizzare su un piano religioso, con quello che è stato denominato il trialogo tra cristiani, ebrei e islamici. È pertinente, per una non difficile analogia, un passo molto significativo della Lettera di san Paolo agli Efesini: "Voi pagani eravate esclusi dalla cittadinanza di Israele ed estranei ai patti della promessa; senza speranza e senza Dio nel mondo. Ora invece in Cristo Gesù voi che eravate lontani siete diventati vicini nel sangue di Cristo. Giacché egli è la nostra pace; egli delle due cose ne ha fatta una sola togliendo di mezzo il muro che li separava, cioè l'inimicizia".
     Con le dovute integrazioni è questa una linea-guida alla quale un giorno queste popolazioni dovranno finire con l'ispirarsi.
     Sia consentito contra spem sperare, anche se non a tempi vicini, rileggendo negli Atti degli Apostoli 9, 31 la descrizione della Giudea, della Galilea e della Samaria come terre di una pace edificata nel timore del Signore, ricolme della consolazione dello Spirito Santo.
     Con le sue sole forze il mondo - politica e diplomazia - non sarà mai in grado di costruire una autentica stabilità.